Negli ultimi 100 anni abbiamo vissuto tempi di cambiamento e di velocità imprevisti, ed ogni previsione fatta sul domani si sta rivelando infondata. I futurologi sembrano dei bambini disorientati: l’unico dato certo è l’imprevedibilità delle cose.
L’accelerazione è stata soprattutto accelerazione delle tecnologie della comunicazione e dei media. In questo scenario lo sviluppo tecnologico e la capacità di comprenderne le conseguenze culturali e sociali sono ormai dimensioni pericolosamente divergenti.
Pochi altri ambiti, oltre alla tecnologia, sono stati coinvolti da questa super-accelerazione evolutiva, e sicuramente quello della redistribuzione della popolazione mondiale, in particolare dal sud al nord del mondo, è uno di questi. La digitalizzazione del pianeta ha sicuramente contribuito ad un processo di consapevolizzazione rispetto ad altri stili di vita e ad altre opportunità, favorendo la genesi di un esodo di dimensioni bibliche del quale non stiamo ancora comprendendo la portata.
Il rischio che corriamo nell’osservare (e nel vivere) l’incontro e lo scontro di popoli diversi è quello che abbiamo corso, ad esempio, quando abbiamo applicato vecchie categorie di pensiero, di legge e sociali allo sviluppo della rete e del web: abbiamo preso vecchie norme e regole applicando le etichette di “digitale” e di “online” pensando di poter definire il fenomeno, senza capire che quello che stava succedendo non era una semplice evoluzione di un passato conosciuto in un futuro prevedibile, ma un vero e proprio quantum leap con conseguenze, nel bene e nel male, imprevedibili.
Frontiere, Confini e Limiti
C’è chi sostiene che il più grande passaggio evolutivo della nostra società sia avvenuto quando, all’incirca a metà del secolo scorso, siamo divenuti consapevoli che la costruzione di un buon futuro avrebbe dovuto basarsi sul confronto permanente delle idee, sul rifiuto delle certezze acquisite e sulla costante rimessa in discussione delle posizioni di potere e di dominio.
E’ vero, questa intuizione è antica e radicata, in maniera ideale, nell’uomo, ma l’evoluzione improvvisa e totale della comunicazione tra esseri umani l’ha resa concreta e possibile.
Derivazione imprevista di questo avvenimento culturale è stata la consapevolezza che le questioni sociali, ecologiche, tecnologiche ed economiche sono anche questioni politiche e, per tale ragione, non vanno trattate come tecnicismi da lasciare ad una casta di esperti ma necessitano di essere divulgate e comprese per permettere ad ogni essere umano di formarsi una propria idea del mondo e di plasmare il proprio futuro.
Come strumento per superare i confini fisici delle nazioni, internet è il mezzo più potente mai creato: prima del web la terra era divisa, non solo a livello geopolitico ma soprattutto a livello culturale e di consapevolezza dell’altro. Il web ha modificato per sempre i rigidi equilibri tra diverse aree della terra, costruiti in migliaia di anni di conflitti, in ragione del fatto che ha abbattuto lo spazio ed il tempo, due variabili che hanno favorito da sempre la lentezza ed il limite con la quale le diverse culture si sono miscelate tra loro.
Il concetto di compartimentazione della cultura e della consapevolezza dell’altro tramite confini nazionali più o meno rigidi è uno dei motivi del contendere tra chi ritiene che si debbano “erigere dei muri” e chi, al contrario, pensa che si debbano “costruire dei ponti”: in particolare, sono in molti a pensare che la fusione dei confini possa corrispondere ad una perdita dell’identità.
Ma l’identità, ovvero la consapevolezza di chi siamo, è realmente una dimensione così fragile da disperdersi se ci spostiamo, se cambiano i confini o se entriamo in contatto con altri? Questa è un’altra domanda aperta, secondo molti.
Ci sono prospettive secondo le quali una frontiera può evocare grandi sfide, emozioni, scoperte e desiderio di superarla. In una parola “evoluzione”.
Altri punti di vista pensano al confine, in senso generale, come ad una barriera, una protezione verso un “fuori” che suscita angosce.
Conseguenza di questi due punti di vista sono, a seconda dei punti di vista, un bilanciamento contrapposto tra i concetti di maggiore o minore sicurezza e di maggiore o minore libertà.
In effetti se partiamo dal presupposto molto concreto che la “gabbia” è il luogo più sicuro in assoluto ma anche quello dentro al quale perdiamo la nostra libertà, la scelta tra l’assenza di confini e la presenza di barriere è, soprattutto, una prospettiva esistenziale su quale possa essere il guadagno nel barattare la nostra ed altrui libertà di movimento nel mondo con l’utopia della sicurezza assoluta.
Ma sicurezza rispetto a cosa o a chi? L’equivalenza tra conosciuto e sicuro oppure tra sconosciuto ed insicuro è indubbiamente un modo di sentire tipico di coloro che vogliono alzare muri che ha come contro altare l’idealizzazione opposta, ovvero che sconosciuto possa significare necessariamente fecondo, innovativo e sinonimo di opportunità in contrapposizione a tutto ciò che è conosciuto e quindi vecchio, noioso, sterile.
Le barriere ed i limiti non sono oggetti, metaforici o concreti, buoni o cattivi a priori o in senso assoluto, io credo. Ad esempio il rispetto, la morale o l’etica sono indubbiamente costruiti sulla base di alcuni limiti che poniamo alla nostra dimensione pulsionale; d’altra parte gli stessi limiti o cornici, se caricati di valenza assoluta, possono diventare i basamenti della rigidità di pensiero o dell’ideologia.
E quindi? Forse anche nella nostra personale prospettiva sul futuro dell’Essere umano la dicotomia tra il limite assoluto, geografico o di pensiero che si voglia intendere, e l’assoluta assenza di limiti, non rappresenta una soluzione ragionevole sebbene si venga spinti quasi sempre a prendere posizione in tal senso.
Da dove deriva il nostro posto nel Mondo?
Non possiamo non partire dal punto di vista che ognuno di noi è figlio di infiniti passaggi di confine.
Lo racconterebbe la nostra genetica se potessimo interrogarla adeguatamente: infinite culture, infiniti frammenti di DNA, infiniti viaggi ed incontri forniscono una risposta alla domanda: Che cosa rende me, me?
Non si tratta esclusivamente di assenza di barriere, anzi, si tratta di barriere inalzate, distrutte, riedificate in maniera nuova e poi ancora rimodellate, superate, combattute e ripristinate ancora. Un dinamico equilibrio tra desiderio di confinamento e spinta espansiva verso l’esterno e verso il diverso.
Potremmo definirla, in termini più psichiatrici, una tensione tra posizione depressiva (introversione) ed un’altra euforica (espansiva).
Allo stesso modo, quando parliamo di “identità italiana”, ma il discorso potrebbe essere traslato a ogni altra cultura o etnia del mondo, a cosa ci stiamo riferendo?
La nostra cultura italiana non è forse una derivazione tra la filosofia, il mito ed il concetto di democrazia ellenica miscelato miscelato alla matematica medio-orientale ed islamica, alla cultura ebraica e cristiana ed alle migrazioni germaniche, slave ed asiatiche? Quando diciamo “fazzoletto” o “scaffale” non stiamo forse parlando la lingua longobarda? Il pomodoro della nostra pizza non è forse uno dei frutti della scoperta delle americhe? Il caffè non è forse un prodotto arabo? Dalla metafisica agli spaghetti, tutto sembra essere frutto di sconfinamenti e di rapidi rientri in patria.
Di sicuro il confine, metaforico o concreto, non può non esistere poiché identificherà sempre il luogo dove il mio “essere” finisce ed inizia quello dell’altro; il confine è la membrana semipermeabile che permette la creazione di potenziali culturali diversi e per questo è indispensabile. In questo senso i confini, i limiti o le cornici non hanno un significato ne brutto ne bello, sono la condizione della diversità.
Il punto credo sia come gestirli in pace e con sapienza, e non se siano utili o meno, pericolosi o meno.
Invece la domanda che mi pare si stia aggirando nelle menti degli uomini di questi tempi è molto diversa: il confine è o non è il luogo dove finisce ciò che è nostro ed iniziano i pericoli? Questa domanda, confusiva e dilaniante, a me preoccupa.
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