Sul New York Times non di rado si leggono articoli relativi al campo della psichiatria e l’articolo apparso sulla nota testata giornalistica il 19 Luglio 2015 firmato da Richard Friedman dal titolo “Psychiatry’s Identity Crisis” mi ha particolarmente interessato.
Molti colleghi hanno obiettato che nell’articolo di Friedman, psichiatra e psicofarmacologo, docente di psichiatria clinica alla Weill Cornell Medical College, vi siano delle ovvietà. In realtà il punto è che molte questioni poste da Frieman sono, piuttosto che ovvie, estremamente vere.
Intanto è ovvio, o meglio “vero”, che per molti disturbi psichiatrici (ad esempio i Disturbi di Personalità) l’approccio psicoterapico è estremamente più efficace della farmacoterapia ed è altrettanto vero che molti psichiatri tralasciano questo aspetto sia nel loro percorso di formazione, sia nella pratica clinica quotidiana delegandolo completamente alla figura dello psicologo con il quale collaborano mal volentieri o addirittura per nulla.
E’ altrettanto vero che noi sappiamo molte cose sul meccanismo attraverso il quale gli psicofarmaci agiscono sui funzionamenti del cervello (modello recettoriale) ma di sicuro abbiamo delle conoscenze primitive al riguardo di come gli psicofarmaci agiscano sui funzionamenti psicologici della mente che è poi ciò che ci interessa davvero.
Il punto più cruciale suscitato dall’articolo di Frieman è, a mio parere, quello riguardante le considerazioni teoriche relative alle questioni che suscita l’affermazione “The diseases that we treat are diseases of the brain” tanto cara ad una certa psichiatria che semplifica come ogni funzionamento patologico della mente corrisponda ad un cervello in qualche maniera lesionato.
Le obiezioni a questa tesi, che riguardano non solo Friedman ma molti altri psichiatri in tutto il mondo (vedi ad esempio Bentall), vengono liquidate semplicisticamente facendo appello al cosiddetto “modello biopsicosociale”: cause biologiche, psicologiche e sociali interagiscono nella genesi dei disturbi psicopatologici. Tutti noi concordiamo probabilmente su questa formula magica, peraltro diffusa in tutta la medicina dato che poche malattie, forse nessuna, non sono in qualche maniera collegate ad una genesi bio-psico-sociale.
Quello che sorprende è che, di fatto, nessuno si occupi di fare ricerca in tal senso. In ambito accademico gli psicologi sono completamente divisi dagli psichiatri che sono divisi da sociologi e antropologi. Il modello bio-psico-sociale, in definitiva, non prende mai forma concreta in veri modelli di ricerca e neppure in autentici e credibili interventi integrati nei Servizi che si occupano del benessere delle persone, anche se tutte le parti in causa (psichiatri, psicologi e sociologi) recitano questo famoso mantra in ambito di scuole universitarie, ad ogni convegno ed in ogni formazione ECM.
Dietro a questa immobilità in presenza di un concetto indubbiamente epistemologicamente rilevante e ben impostato quale è il “Modello BioPsicoSociale”, non si può non scorgere la volontà di mantenere nettamente le attuali divisioni accademiche e di ordini professionali, con i loro ruoli, gerarchie e poteri a discapito del motivo per il quale dovremmo essere spinti a lavorare ogni giorno: la vera conoscenza scientifica ed il benessere che ne dovrebbe derivare per i nostri pazienti.
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Sono uno psicologo che lavora, oltre che come libero professionista, anche in equipe socio-sanitarie. Nel territorio dell’Emilia-Romagna ancora i progetti sono multifocali e abbracciano il contesto socioeconomico delle persone richiedenti aiuto. Il soggetto viene aiutato a vari livelli: economico-lavorativo, relazionale (familiare, di coppia e amicale) e psicologico (nuclei traumatico-deprivanti irrisolti, strutturazioni nevrotiche, di personalità e psicotiche con la cogestione medico-psichiatrica)