Marilyn Monroe, ultimo atto…
Ralph e Marilyn, Romeo e Giulietta, l’analista che voleva essere attore e l’attrice che voleva essere mente oltre che corpo.
Con questo intricato scenario, fatto di legami quasi incestuosi, di invidia mista ad ammirazione, simbiosi e giochi di specchi, il legame a doppio filo spinato tra Marilyn e il suo analista (l’ultimo e il solo uomo, a parte il sostituto, il Dottor Wexler, che Greenson scelse per Marilyn quando lui partì, lasciandola, per l’Europa) serpeggia e si fa strada.
Greenson incontra Marilyn Monroe in un Hotel e già dalla prima seduta il transfert ed il controtransfert sono massicci: i due parlano per ore in una stanza d’albergo anonima e poi, in seguito, in casa di lei, in altri alberghi, in casa di lui: quasi a voler significare che, in un rapporto così arcaico, “padre in Do’ maggiore”, come lui amava definirsi, e figlia piccola e abbandonata, il setting non avesse importanza, come in una recita quasi Beckettiana dove il dolore è espresso in parole e in silenzio, senza necessità di un contenimento oltre. Letti, sedie, poltrone ma mai un lettino e case, luoghi diversi ma mai un posto definito dove riporre le proprie angosce e mettere i propri pensieri al caldo e al sicuro. Come due amanti che si lasciano e si riprendono, che si amano ancestralmente ponendo i propri bisogni gli uni negli altri, senza soluzione di continuità e senza possibilità di scissione del legame, Greenson abbandona Marilyn per qualche mese e Marilyn paventa l’ipotesi di abbandonare l’analisi, alla fine.
Marilyn non avrà più altro analista, Greenson tenterà di non soccombere al suo lutto “inelaborabile” scrivendo ma mai direttamente di Marilyn: inizia un libro, vorrebbe parlare di se stesso, della sua scelta di essere medico della mente, del perché ha scelto di non chiamarsi più Romeo (il vero nome di Ralph Greenson era Romeo Greenschpoon), una forma di Diario intimo dedicata a suo padre, lui che si considerava il padre della Monroe, ma non lo termina così come altri scritti sulla difficoltà nel prendere in cura persone ricche e famose o donne che vorrebbero essere attrici, così come un libro sul fallimento dell’analisi: lui, che iniziava le sue conferenze, prima del dolore, la morte e il lutto con un “siete molto fortunati ad essere qui e poter ascoltare me”, non riesce più a rimettere le mani nelle lacrime a rimestare nel dolore suo proprio e quasi simbolicamente, perde quasi del tutto la parola e si ammalerà di “cuore”.
Scrive, invece, completandoli, due libri che rimangono tra i testi fondamentali della psicoanalisi, mostrando la sua grandezza come scienziato e ammonendo circa possibili errori. Marilyn, da canto suo, lascia invece al Dottor Greenson dei nastri con la sua voce registrata: forse in un ultimo tentativo di mostrare a se stessa e agli altri che può farcela, ora, da sola, forse per tentare di rompere quel legame troppo stretto e concreto e che, a dispetto delle fantasie di entrambi, non potrà mai essere tra padre e figlia, madre e figlia, o forse, come dice lei per “regalare al Dottor Greenson” un nuovo metodo di psicoanalisi che lui poi potrà utilizzare con altri pazienti, Marilyn, sola nella sua stanza, al buio, senza nessun occhio scrutatore, nemmeno quello del suo analista, regala a Ralph le sue emozioni più segrete, i progetti, le sue paure come mai era riuscita prima.
Marilyn che mai aveva conosciuto il padre e che mai ha conosciuto una madre nel vero senso della parola, Gladys fu internata in manicomio sin dalla più tenera età della figlia e le sopravvisse per molti anni, una madre quindi che non può contenere nella sua mente gli elementi frammentati beta della figlia e restituirli come pensieri pensabili, forse non riusciva ad essere veramente libera nelle sue sedute con il Dottor Greenson; dopotutto la figura paterna è all’origine anche dei dettami morali, e davanti ad un padre è complesso parlare di storie di sesso, di uomini, donne, pratiche sessuali che ricordano fin troppo da vicino l’accudimento madre-figlio malato; è complesso mettere in scena il nevrotico “come se” una persona sia come il tuo padre buono quando dentro di Marilyn non vi è nessuna figura di padre buono, ma solo di uomini di passaggio, uomini che la guardano con desiderio ma senza amore.
Solo Joe di Maggio le rimarrà accanto fino alla fine ma lui desiderava lei fosse solo Norma Jeane mentre, ormai, la sua recita era andata troppo oltre e Marilyn non poteva più tornare in dietro, mai più in dietro alla solitudine e alle persone che non sanno della tua presenza; Joe rimase ma il matrimonio naufragò. Marilyn, che non aveva mai avuto una famiglia, che non riuscì a diventare madre, che non conobbe mai i suoi fratellastri, visse una famiglia che non era la sua, quella di Ralph, e la ferita del non aver avuto mentre altri potevano avere, diventò insanabile: sognava di poter andare a vivere con loro, di poter essere adottata dai Greenson ma come ultima fantasia, prima di morire, raccontò ai suoi nastri che avrebbe voluto rimettere in scena il dramma di “Romeo e Giulietta” : lei sarebbe stata Giulietta e Giulietta, lo sappiamo, muore perché non può avere l’amore che vorrebbe, come Marilyn, e trascina con se Romeo, come Romeo era, in verità, Ralph; lo trascina se non nella morte nel dolore, nella colpa, nelle accuse della stampa, lo rende “assassino” per molti e per molti altri “un uomo ormai invecchiato” che gli amici e pazienti stentano a riconoscere, in un uomo che torna dalla figura materna per essere consolato, accudito, Anna Freud, con la quale continuerà un fitto carteggio per anni e dalla quale riceverà le condoglianze per la morte della sua “paziente”.
Greenson, che era entrato nel mondo del cinema in più modi, dall’essere lo sceneggiatore di “tenera è la notte” di F.S. Fitzgerald (dove ricordiamo che un medico si innamora di una donna mentalmente instabile), dall’aver scritto un romanzo da cui fu tratto il film “Capitano Newman” , che era stato analista di Vivien Leigh, di Frank Sinatra e altri ancora, diventa colui che scandisce la vita di Marilyn dedicandosi solo a lei come farebbe una madre con la figlia piccola, come molti hanno detto in una sorta di “folie à deux”: si può uccidere una persona a forza di cura, disse il Dottor Wexler in una intervista postuma, così come ci si può separare da qualcuno solo morendo.
Greenson fu l’ultima persona a vedere Marilyn viva e fu il primo a vedere Marilyn morta, Greenson che cercava di salvare Giulietta non riuscendoci. Romeo che nel tentativo di salvare, o non salvare Giulietta, si dimentica di quello che aveva sempre promulgato e inizia a diventare un “medico del corpo” prescrivendo iniezioni, clisteri e non volendo vedere, tollerare, che Marilyn era seguita anche da un altro medico che le forniva regolarmente barbiturici:
Marilyn tra due padri che, non riuscendo a contenerla con le parole, diventano penetranti e penetrativi e somministrano “buone pillole” per sedare il senso di inutilità e incompletezza che, una donna bellissima, famosa, stanca, sofferente, disturbata, abbandonata, come Marilyn riusciva a trasmettere.
Un po’ come una profezia che si autoavvera, come una coazione a ripetere “se mia madre non mi ha amato, nessun altro potrà amarmi, salvarmi” e non ci sono riusciti neppure i suoi ultimi due medici.
Marilyn era un camaleonte, una attrice che aveva imparato a recitare: recitò con i suoi medici, con l’arcigna domestica e con tutti quelli che la circondarono nei suoi ultimi giorni, una recita perfetta, la sua ultima interpretazione.
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