Il problema della Diagnosi in Psichiatria
Forse ancor più che in altre specialità mediche, la formulazione di una diagnosi rimane un problema aperto in Psichiatria. Di seguito vi riporto alcune considerazioni sul mio “personale” sistema di fare diagnosi…
Non è azzardato affermare che si possa descrivere un iter diagnstico differente per ogni coppia medico-paziente che prendiamo in considerazione. Di conseguenza un approccio alla diagnosi unico, ottimale ed applicabile in ogni situazione non è immaginabile, mentre uno stile di lavoro strutturato su alcuni principi “di base” è concretamente formalizzabile.
I due stili di lavoro estremi che si possono ritrovare nella pratica quotidiana fanno riferimento essenzialmente alle seguenti due posizioni:
(1) Stile di colloquio altamente strutturato, una sorta di “caccia al sintomo” basato sulla rigida applicazione dei criteri del DSM-V e della Medicina Generale (anamnesi, prognosi, etc.)
(2) Stile di colloquio non strutturato, nel quale il paziente viene lasciato libero di parlare e di esprimere chiacchiere, apprezzamenti, lamentele, vissuti e associazioni di pensieri in libertà.
” Porcospini e Volpi “
Mendel nel 1964 descrisse due classi di terapeuti che lui definí i “porcospini” e le “volpi” basandosi su di un vecchio libro di Isaiah Berlin. I terapeuti porcospini risolverebbero i problemi affidandosi ad una mente indagatrice ed analitica completamente basata sulla logica (potremmo dire completamente orientati all’applicazione del nostro DSM-V), al contrario le volpi si affiderebbero ad un approccio più votato alla rêverie e ad una forma di ragionamento rivolto all’attesa che l’esperienza dell’incontro con il paziente prenda spontaneamente una forma. Di sicuro ogni pischiatra alternerà questi due approcci abilmente, si spera, ritagliandoli sul paziente. L’ingrediente indispensabile perchè ambedue questi stili di lavoro possano essere efficaci nel formulare una buona diagnosi sarà quello di una ottima competenza relazionale che riesca a trasmettere al paziente un interesse genuino a lui rivolto. E’ evidente che la qualità della relazione giocherà un ruolo chiave nel facilitare la possibilità dell’intervistatore di raccogliere dati rilevanti utili alla diagnosi.
Le due Liste: Diagnosi Possibili ed Impossibili
Una volta stabilita una relazione efficace sarà possibile iniziare ad osservare comportamenti utili alla diagnosi, farci una opinione circa le motivazioni alla visita. La persona dovrà, a mio parere, essere inizialmentelasciata libera di descrivere il motivo della visita per poi restringere progressivamente il campo dell’attenzione. Mentalmente o per iscritto si può valutare di fare due liste con modalità più istintive che nettamente orientate alla categorizzazione secondo il DSM-V, ovvero “disturbi psichiatrici possibili” e “disturbi psichiatrici da escludere”. All’inizio verremo orientati verso le principali categorie diagnostiche: sintomi psicotici, alterazioni dell’umore, difficoltà cognitive, ansia (con evitamento, ipervigilanza o allarme) e problematiche fisiche/organiche concomitanti. E’ sempre opportuno valutare anche le problematiche sociali, gli stress ambientali e relazionali presenti ed eventuali pattern di disadattamento cronico. A livello della creazione di queste due liste si dovrebbero utilizzare domande iperinclusive, poco specifiche per tentare di mantenere la persona sufficientemente libera di esprimersi ma sempre con una certa attenzione ad un colloquio semi-strutturato.
Fare la Diagnosi!
Una volta aver costruito una lista di possibili patologie psichiatriche, questo lavoro andrà completato con la valutazione della durata dei sintomi e segni presenti e dell’impatto che questi. stati patologici hanno sulla qualità di vita e sul funzionamento generale della persona. Se vengono riscontrate delle comorbilità di più disturbi andrebbero indagate le reciproche relazioni temporali e causali. A questo punto, criteri diagnostici del DSM-V alla mano (o meglio in mente!…) dovreste essere in grado di osservare se i sintomi riferiti soddisfano effettivamente i criteri per un disturbo psichiatrico definito: è a questo punto che le domande possono farsi più specifiche e limitanti il “libero vagare” del discorso del nostro paziente, sempre con attenzione ed empatia. Non è più il momento di chiedergli quello che vuole dire, ma quello che noi vogliamo sapere.
…per finire
Stabilito, con adeguata precisione, il disturbo psichiatrico presente (e le eventuali comorbidità) andranno indagati la condizione premorbosa, il decorso del disturbo e la storia famigliare. E’ in questa fase che andranno escluse le condizioni psichiatriche da cause mediche generali. Una volta fatta la diagnosi secondo il DSM-V (ahimè, ci tocca…!) potremmo porci il problema della prognosi che sarà pesantemente connessa sia alla diagnosi attuata, sia ai fattori predittivi della aderenza alle cure che saremo in grado di identificare (consapevolezza, motivazione, accesso alle cure, presenza di una rete sociale, pregressi tentativi di cura, etc.).
Pur senza mettere in dubbio questo approccio basato su dei passaggi logici, molti terapeuti autorevoli fanno osservare che “a volte la diagnosi si presenta d’improvviso alla mente prima che uno sia consapevole delle sue ragioni” (Sandifer, 1972). Come dobbiamo porci nei confronti di questo fenomeno di magica intuizione? Diffidenza? Fiducia? Acuta capacità intuitiva? Esperienza dell’intervistatore? Forse tutte queste domande richiedono attenzione. Per comprendere la natura e l’importanza di una diagnosi, è comunque necessario applicarsi razionalmente alle fasi logiche anche se una diagnosi emergerà spontanea, dato che un elemento intuitivo frutto di un probabile processo abduttivo necessita di essere rinforzato o messo in discussione.
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