Il richiamo seducente della Tabula Rasa
La distruzione del nostro mondo per come lo conosciamo, prodotta o meno da una apocalisse nucleare, è diventa nuovamente una vera dipendenza, un’ossessione per tutti coloro che producono narrazione.
Romanzi, videogiochi, serie televisive, cultura popolare, forse anche alla luce dei recenti armamenti di nazioni guidate da leader oggettivamente spietati e folli, hanno ripreso in mano il tema della possibile fine del mondo.
Il fascino per la distruzione ad opera di eventi naturali (terremoti, asteroidi, cambiamenti climatici) o a seguito di una guerra nucleare è sempre associato alla paura: quel sentimento di “mostruoso e meraviglioso” che i greci chiamavano deinòs, facendo per lo più riferimento al divino con i suoi poteri distruttivi e generativi assoluti.
Molte persone devono ammettere di sentirsi trasportati dalla poetica della distruzione e della morte su larga scala: il fascino per i serial killer, per i meccanismi di funzionamento di bombe sempre più potenti, i terremoti e le esplosioni vulcaniche, i musei delle torture, i film horror, le stragi, l’ipotesi di un duello atomico tra Kim e Trump.
Potrebbe non essere improbabile che l’atroce ed assoluta distanza da ogni schema sociale, industriale e politico conosciuto di queste forme di devastazione, suggeriscano un’ipotetica tabula rasa che permetta di superare una realtà vissuta come claustrofobica ed ingiusta, secondo una prospettiva a metà tra Nietzsche ed il Futurismo.
Fine del Mondo o Inizio del Mondo?
Perchè demolire genera sempre una sensazione secondaria di piacere? In parte la risposta rimanda alla possibilità di controllo del deinòs ovvero di quell’entità divina verso la quale proviamo orrore ed amore: madre natura, o Dio, che ci fa nascere ma anche morire. Colui che distrugge rende il deinòs alla stregua di uno schiavo, per cui nel distruggere c’è sempre una violenta espansione dell’Io ed una sensazione di controllo onnipotente.
Oltre a ciò non bisogna dimenticare l’idea, depressiva ed immatura, della possibilità di salvarsi e di evolversi tramite il concetto di Tabula Rasa.
Come avviene nell’omicidio-suicidio nel rapporto tra madre depressa con il figlio, dove la morte è vissuta come liberazione e salvazione, allo stesso modo nell’umanità intera può serpeggiare l’idea che la distruzione totale possa essere un evento auspicabile ed utile in un mondo che non si oppone, ne a livello poetico, ne concreto, a guerre, nefandezze, sopprusi.
La fine del mondo potrebbe diventare, secondo una prospettiva melancolica ed allucinata, una vera e propria rinascita del mondo.
L’idea che sia più facile distruggere per ricostruire, piuttosto che modificare o riparare, provando il difficile processo della rielaborazione degli errori, è di sicuro tipico delle culture immature, in una piena fase di adolescenza nucleare e tecnologica.
Come umanità stiamo sempre più investendo in “espansione dell’Io“, ovvero in amplificazione di dimensioni comunicative, di forza e di controllo sulla natura, piuttosto che di analisi sulle conseguenze delle nostre azioni: il fermarsi e portare attenzione attiva al nostro operato come razza umana comporta il doloroso ma fondamentale momento dell’elaborazione, che è il contrario dell’espansione dell’Io, rappresenta la possibilità di esercitare un limite al diniego grandioso di essere sempre e comunque sottomessi alle leggi di natura.
In questo senso il fascino per la Tabula Rasa è la concretizzazione del principio freudiano secondo il quale l’essere umano è destinato a ripetere i suoi sbagli: arrivati all’apice della nostra evoluzione, invece che fornire senso profondo al nostro operato ed evolverci spiritualmente e non solo tecnologicamente, ritorniamo indietro nell’illusione che un momento di crescita da una fase adolescente, spensierata ed irresponsabile, ad una adulta, consapevole e feconda, possa essere evitato.
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