L’idea di essere ancora in una fase preliminare dell’esistenza è mai balenata nella vostra mente? La sensazione di stare dedicandovi ad un indefinito periodo di allenamento in attesa di una gara che non arriva mai, vi riguarda? La monotona routine esistenziale è reale o è solo una percezione, un vissuto?
Molto spesso si impadronisce di noi l’idea che la ripetizione di gesti obbligati e ripetitivi potrebbe andare avanti senza termine, consumando inutilmente la vita. Probabilmente si tratta di un sentimento comune alla maggioranza degli uomini, in particolar modo quando ci rendiamo conto di essere incasellati nell’esistenza “ad orario” delle città che assomigliano sempre più, al netto delle nostre dimensioni creative e fantastiche, a delle Rat Race.
La trasposizione letteraria di questo sentimento, spaventoso ed ispirativo al contempo, è talmente potente che ha suggerito opere meravigliose ed immortali.
“Il deserto dei tartari”, scritto da Dino Buzzati nel 1940, racconta l’esperienza esistenziale, silenziosamente drammatica e surreale, del tenente Drogo che esercita la sua professione di soldato presso la fortezza Bastiani, che domina la desolata pianura chiamata ” il deserto dei tartari” iil quale consumerà la sua esistenza nell’attesa di un nemico che non arriverà mai. O meglio, quando questo nemico, entità ipotetica e metafisica per tutta la durata del racconto, finalmente comparirà, il militare, giunto alla fine dei suoi giorni, stanco e malato, dovrà lasciare il suo avamposto, per andare a morire facendo svanire il sogno di un’epica battaglia che avrebbe potuto permeare di significato la sua intera vita.
Allo stesso modo ne “Il castello” di Franz Kafka, troviamo una altrettanto mirabile descrizione di un soggiorno inutile, un’indefinita e metafisica permanenza ai confini estremi del mondo civile, come metafora della vita consumata in un’attesa priva di significato.
Appare evidente che i temi del tempo e dell’attesa invadono in maniera ossessiva sia Buzzati che Kafka e, analogamente, molti altri autori che hanno vissuto vari passaggi della modernità: Kafka durante la prima guerra mondiale, mentre Buzzati vedrà, nel corso della sua vita, anche la seconda.
Prima di arrivare al moderno ed al post-moderno, da “Aspettando Godot” di Samuel Beckett in avanti tanto per intenderci, non si può non constatare che, anche in epoche antiche, l’inquietante sensazione di uno scorrere del tempo angoscioso e di un’attesa alla quale solo a gran fatica si può attribuire un brandello di significato, sono risultati topos letterari tutt’altro che minori.
Ad esempio al fianco delle grandi avventure di Achille o di Ulisse, ritroviamo la storia di Penelope; oppure in corrispondenza delle gesta degli eroi partiti per le Crociate o per qualche altra avventura, chiamata spirituale o missione, per terra o per mare, esistevano le storie di donne e di uomini che rimanevano nello sfondo, attendendone il vittorioso ritorno.
Tematiche centralissime di opere immortali, come La Divina Commedia di Dante presentano luoghi e nuclei narrativi, come ad esempio il purgatorio, completamente attinenti alle fatiche ed ai dolori delle attese e del tempo che, nella sua dimensione punitiva, scorre via consumando passioni, esistenze ed epoche.
Il tempo e l’attesa, quindi, sono temi sempre più centrali della cultura occidentale man mano che ci si avvicina alla modernità, e la domanda che mi viene in mente è la seguente: cosa ci induce ad esporci al rischio di questo spreco del tempo e questa attesa straziante? Cosa si nasconde in profondità a questa disarmonia esistenziale così diffusa?
Parlando degli autori letterari che abbiamo citato in precedenza, probabilmente nel caso di Kafka probabilmente ritroviamo il senso di rovina e fallimento del capitalismo, con le leggi disumane ed impietose totalmente imprevedibili che non risparmiano gli esseri umani più deboli. Quello che traspare nel romanzo di Buzzati, invece, è una più metafisica ed ineluttabile solitudine dell’uomo che si trova in un mondo ostile e, allo stesso modo di Kafka, il predominio di forze ignote ed incontrollabili.
L’idea realmente rivoluzionaria che ritrovo in ambedue questi autori è quella di riuscire a negare l’incomprensibilità del destino dell’uomo tramite l’attesa di un evento straordinario, che è un sentimento molto contemporaneo.
Una delle più diffuse strategie esistenziali, se così si può definire, è quella di tendere alla procrastinazione proiettando speranze e desideri nel futuro, attendendo un grande evento che, finalmente, cambierà le nostre vite.
Un improbabile congiuntura resa, ovviamente, fortemente sfavorevole da un mondo fondato su dimensioni complesse e caotiche, tendenti in continuazione verso l’entropia.
Contro questa accelerazione parossistica, in un mondo nel quale regna il “rumore di fondo” ed il chaos, contro il dominio della fretta e dell’agitazione, la società moderna ha partorito anche la figura opposta, ovvero colui che cede davanti alle sue pretese, ai suoi desideri, essendo consapevole di non potercela fare, abbandonando ogni proponimento, ogni fiducia di potere ottenere un qualche successo con le proprie deboli forze.
Stiamo parlando dell’eroe della resa, della rinuncia a tempo indeterminato nei confronti del principio del piacere.
E’ interessante notare come la fenomenologia di questa che, in assenza di una definizione più adeguata, potremmo definire nevrosi di attesa, sia stata velocemente, e non completamente, presa in considerazione dalla psicologia e dalla psichiatria, inclusa la psicoanalisi ed il pensiero di Sigmund Freud.
Lo stato di un individuo che si dispone ad attendere in un intervallo cronologicamente indefinito, ma potenzialmente interminabile, tra l’ipotesi di una qualche congiuntura ed il suo realizzarsi temuto e sperato, con ambivalenza invalidante, porta ad espandere enormemente quello che Freud battezzò come “controaspettativa”, la possibilità cioè che qualcosa di imprevedibile, di minaccioso, faccia nel frattempo franare l’intero edificio dell’attesa, ovvero il passaggio all’azione viene sospinto verso il territorio delle fobie.
Di questo stato parafisiologico di attesa, di sospensione, più tipico della civiltà moderna che di quella antica, è stato riservato un posto nei quadri clinici dell’angoscia, secondo una tradizione legata più alla filosofia che alla psichiatria, o all’intersezione fra le due, da Kierkegaard a Jaspers a Minkovski: l’angoscia, secondo il pensiero di Freud, “ha un’innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e dinanzi a qualche cosa. Possiede un carattere di indeterminatezza e di mancanza d’oggetto; nel parlare comune, quando essa ha trovato un oggetto, le si cambia nome, sostituendolo con quello di paura”.
Che cosa aspetta, dunque, chi vive nella perenne attesa dell’azione? Quale evento o congiuntura si renderebbe necessaria per considerarsi pronti a gettarsi nel vivo dell’esistenza?
Mi permetto di dire che, forse, il vero evento sarebbe quello di cambiare il nostro punto di vista, smettendo di aspettare qualcosa che non accadrà mai, imparando ad immergersi in tutto ciò che di grande o piccolo il quotidiano ci riserva, consapevoli che è di errori, di approssimazioni, di sbavature e di false partenze che abbiamo bisogno, non di attese perfette.
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Bellissime considerazioni dottore!È la mia filosofia di vita:inutile rimpiangere il passato ne’ tantomeno angosciarsi per il futuro ma vivere intensamente il presente cogliendo l’attimo fuggente.