È stato durante gli anni ’90 che ha iniziato a diffondersi tra psichiatri, psicologi e neuroscienziati la parola “neurodiversità”.
Il termine “neurodiversità” è un neologismo attribuito alla sociologa australiana Judy Singer (affetta da Sindrome di Asperger) che immaginò questo concetto dirompente durante i suoi studi sullo spettro autistico verso la fine degli anni ’90 del secolo scorso.
Il concetto che stava alla base di questo termine nasceva dalla considerazione che per quanto riguarda il cervello umano, e quindi la mente umana che da esso emerge, non esiste uno standard di riferimento, verso il quale devono essere confrontate le menti dei singoli individui che popolano il pianeta.
All’epoca Judy Singer stava producendo una fitta corrispondenza con il giornalista e scrittore americano Harvey Blume a causa del loro interesse reciproco per la manifestazioni dello spettro autistico, e fu proprio lui a citare questo termine per la prima volta in un articolo sul The Atlantic il 30 settembre 1998, peraltro senza citare il suo ideatore originario, Singer.
Il termine “Neurodiversità” rappresenta un concetto affascinante e dirompente destinato a cambiare la psichiatria e le neuroscienze per sempre: com’è possibile stabilire se la mente di un individuo è normale o anormale?
Il termine “neurodiversità” si contrappone al concetto di “neurotipico”, e questi due concetti richiamano la vecchia prospettiva stigmatizzante dell’essere “normali” rispetto all’essere “strani” o “diversi” in rapporto ad una normalità psichica che è chiaramente una idealizzazione statistica ed epidemiologico, connessa all’appartenenza a quel gruppo di persone che mostrano le caratteristiche neuro-psichiche maggiormente rappresentate tra la popolazione generale.
Inizialmente, a causa del campo di interessi di Judy Singer, la neurodiversità veniva riferita agli individui presenti all’interno dello spettro autistico, ma molto rapidamente ci si rese conto che molti altri gruppi di persone potevano essere descritte tramite questo concetto tra cui coloro che mostravano segni e sintomi di ADHD, Disturbo di Asperger, discalculia, disturbi del linguaggio, dello sviluppo, disabilità mentale, Sindrome di Tourette e anche alcune condizioni considerate francamente patologiche come il Disturbo Bipolare, la Schizofrenia ed i Disturbi di Personalità.
Allora ed oggi, sembra che permanga un certo margine di incertezza su quale sia la discriminante per definire un comportamento o una variazione psichica come normale oppure come appartenente ad una psicopatologia.
In questo senso il termine neurodiversità ha senz’altro un grosso merito iniziale ovvero quello di allontanare lo stigma e la discriminazione da chi presenta una psiche, o addirittura un funzionamento cerebrale, in qualche maniera anomala rispetto a competenze sociali e relazionali, capacità di apprendimento, attenzione, umore, percezione ed elaborazione delle informazioni.
A questo punto è molto importante richiamare lo stesso DSM-V, il noto manuale in cui vengono descritti i vari disturbi mentali.
Sul DSM-V, allo stesso modo che nelle precedenti edizioni, ritroviamo una caratteristica che accomuna tutti i disturbi mentali ovvero la famosa frase che specifica, riferendosi alle caratteristiche di una data psicopatologia, “tali caratteristiche causano disagio clinicamente significativo” e quindi una compromissione rilevante del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o famigliare.
Insomma le varie caratteristiche che definiscono anche le psicopatologie possono definire non dei disturbi ma delle neurodiversità nel momento in cui non “causano disagio clinicamente significativo”.
In estrema sintesi il concetto fornisce una grande apertura tra l’essere normali e l’essere affetti da un disturbo, stabilendo che potrebbe esserci qualche cosa tra questi due poli.
Sul fatto che la neurodiversità possa essere una risorsa piuttosto che un handicap o una disabilità, nel senso comune del termine, abbiamo non uno ma migliaia di esempi storici e contemporanei legati a persone che sono state definite “strane”, “diverse” o addirittura “disturbate” che, in realtà hanno poi cambiato il mondo in cui viviamo, nella scienza, nell’arte, nella letteratura o nella politica.
Ovviamente non vorrei entrare nel banale concetto antipsichiatrico di negazione dell’esistenza della malattia mentale o del concreto disagio psichico; ovviamente i disturbi mentali esistono eccome ed alcuni generano purtroppo molta più sofferenza che aspetti positivi.
È certo peró che la neurodiversità può mostrare in maniera combinata delle caratteristiche positive insieme ad altre di fragilità che possono trasformarla in patologia specialmente nell’incontro con un ambiente circostante rigido, poco accogliente e che disprezza la pluralità e, lasciatemi dire, la biodiversità.
Neurodiversi, cosatretti a vivere in un Mondo a misura neurotipica
Un ambiente omologante ed ipercontrollante di sicuro può favorire la trasformazione di alcune caratteristiche psichiche fuori dalla norma statistica in “disagio clinicamente significativo” (come ci ricorda il DSM-V) e di conseguenza in una compromissione rilevante del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o famigliare.
Tutto questo però può avvenire, per così dire, in corrispondenza di specifiche “barriere architettoniche psichiche” che rendono il mondo difficile da vivere per chi presenta una quota più o meno elevata di neurodiversità.
Quello che intendo è che quasi ogni disturbo psichico può magicamente divenire meno grave e meno pervasivo se messo nel giusto contesto socio-ambientale, ovvero, seguendo l’esempio di prima, in una condizione che presenti un minor livello di “barriere psichiche”, o “psicoarchitettoniche”.
Ognuno di noi in effetti ha un suo proprio posto nel mondo dove può esprimere al meglio il suo potenziale e, per un altro verso, credo che quasi ognuno di noi abbia un luogo dove possa invece sembrare “strano”, essere in difficoltà o addirittura manifestare un vero e proprio disagio mentale.
Insomma tutti noi abbiamo un luogo, un gruppo, un ambiente speciale, magico dove riusciamo a dare il meglio di noi stessi e dove le nostre caratteristiche anche “strane” o “bizzarre” si incastreranno al meglio con quello che ritroviamo intorno a noi.
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Salve dottore,
Un bel libro è” Tipi umani particolarmente strani” di Enrico Valtellina che esamina tutte le non conformità dei soggetti Asperger nelle relazioni sociali.