Il rapporto con il mondo digital
Come descritto nel precedente articolo sul Colloquio Digitale, la percezione del rapporto tra le persone e il Digital si sta strutturando.
Non mi riferisco al cambiamento in sé, ormai tangibile, ma alla percezione dello stesso.
In particolar modo a come un paziente psicotico o schizofrenico sia molto più incline all’utilizzo della tecnologia di quanto ci si possa aspettare.
Guardatevi attorno, se non vedete nessuna persona rapita dallo schermo è perché siete voi stessi distratti e inghiottiti dal vostro personale Black Mirror, utilizzando la splendida metafora della nota serie inglese su Netflix.
“Se non riuscite ad individuare il pollo seduto al tavolo in 30 secondi, allora il pollo siete voi”, dichiara Daneshgar, giocatore di Poker professionista.
In questa atmosfera di costante disattenzione, ci stiamo lasciando passare sotto gli occhi nuovi segni e sintomi, relegandoli ad una sorta di mondo virtuale, che nulla avrebbe a che fare con il reale, il tangibile, il concreto.
Nelle corsie dei reparti di psichiatria, si vagliano le abitudini alimentari delle persone assistite, le ore di sonno dormite, la qualità e quantità dei pensieri. Nessuno si sognerebbe mai di chiedere quante ore si sono trascorse sullo smartphone nella giornata precedente.
Un po’ come tra carcerati: si può parlare di tutto ma non di reati commessi.
Se siamo noi terapeuti i primi a non renderci conto delle dipendenze digitale, non possiamo riconoscerle all’esterno. Non possiamo studiarle, imparare a trattarle e ad utilizzarle.
Lo scenario descritto può sembrare nichilistico, ed in parte lo è, ma è uno dei cambiamenti inevitabili a cui stiamo andando incontro. E come in ogni fase di forte progresso, la soluzione non può certo essere quella di tirare il freno a mano, sperando che “altri” migliorino le cose.
Utilizzare una dipendenza
Gli smartphones sono stati progettati per attrarre la nostra costante attenzione. Tutto è alchemicamente calibrato: i materiali, le forme, i colori, i suoni, le gesture e i tempi di azione della user-interface.
Anni di ricerche sono state indirizzate sull’origine delle interazioni umane, partendo da studi antropologici sulle tribù native dell’Amazzonia, come i Karaja’, ad esami biometrici sempre più avvenieristici
Il livello di sofisticazione ormai raggiunto, permette ad un bambino di 4 anni di ricercare da solo i cartoni animati su YouTube, il tutto senza saper ne leggere ne scrivere. E lo stesso vale con i diversamente giovani. I nonni moderni, leggono le pagelle dei nipoti on-line, fanno videochiamate con Skype o FaceTime, ordinano i giocattoli su Amazon.
“Ma i pazienti? Insomma, non vorrete dire che un paziente psicotico, un Asperger o tanto meno uno schizofrenico usano il digital?! Tutto ciò è impossibile, la loro Spaltung non gli può permettere di interfacciarsi con un’app!!!”
Per rispondere a questa domanda basta uscire dal classico setting terapeutico, magari portando un paziente schizofrenico a prendere un caffè, lasciandolo libero di esprimersi senza i formalismi, per scoprire un mondo intero, vivo, digitale.
Si scoprirebbe una passione quasi fanciullesca per la tecnologia, priva di preconcetti e paure.
Tutto appare magico ed entusiasmante. Non sono semplicemente in grado di eseguire azioni basilari come chat o ricerche su Google, ma scaricano App, ritoccano foto per i profili Instagram, sincronizzano con il Bluetooth devices biometrici come gli smartwatches.
Abbiamo davanti ai nostri occhi un canale preferenziale per esplorare la complessità della mente umana e siamo ancora diffidenti e scettici, nascondendo in realtà un profondo senso di paura per il cambiamento.
I campi di applicazione in tal senso sono infiniti ed ancora agli albori.
Basti pensare alla possibilità di gestire le attività quotidiane con promemoria e alert, ad esempio per gli appuntementi con i medici o per l’assunzione delle terapie.
La somministrazione delle scale diagnostiche avrebbe un appeal decisamente maggiore su questi pazienti rispetto a carta e matita.
In questo contesto, un mondo in rapida espansione è sicuramente quello delle DTx-Digital Therapeutics, equiparate come efficacia, certificazioni NICE e prescrizione alle terapie tradizionali.
E se questo sarebbe già pienamente attuabile, il futuro ci sta prospettando visioni sempre più affascinanti. In tal senso nomino brevemente un software IBM chiamato Watson, capace di riconoscere in sole 300 parole la possibile presenza di una psicosi.
Insomma, lo scenario sta prendendo forma, le tecnologie ci sono, resta a noi il compito di interpretarle e indirizzarle al meglio per la salute psicofisica dei nostri pazienti.
Bibliografia
- Corcoran, C. M., Carrillo, F., Fernández-Slezak, D., Bedi, G., Klim, C., Javitt, D. C., … Cecchi, G. A. (2018). Prediction of psychosis across protocols and risk cohorts using automated language analysis. World Psychiatry, 17(1), 67–75. https://doi.org/10.1002/wps.20491
- https://www.research.ibm.com/5-in-5/mental-health/
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