La lobotomia e, in generale, la psicochirurgia sono le terapie psichiatriche maggiormente diffamate.
Oltre agli psichiatri che le rifiutano per questioni di principio, ve ne sono altri che considerano un errore l’uso che ne è stato fatto nei primi due decenni del ‘900, periodo di massimo sviluppo di queste tecniche.
Dopo l’introduzione in terapia dei neurolettici, sono venute meno molte (quasi tutte direi….) delle indicazioni di questi interventi anche se con le tecniche chirurgiche più moderne si potrebbero comunque evitare gli effetti collaterali più indesiderati.
Gli studi a lungo termine nei pazienti operati di lobotomia prefrontale con le vecchie tecniche mostrano risultati tuttora favorevoli, come pure quelli relativi ai pazienti sottoposti alle nuove operazioni stereotassiche.
L’opinione attuale sulla lobotomia e sulla psicochirurgia deriva sia dalle nuovo opzioni terapeutiche presenti ma anche da importanti questioni morali che la psichiatria tutta ha affrontato nel corso degli anni.
Nonostante questo, quasi tutti gli psichiatri che ebbero esperienza di psicochirurgia concordavano sul fatto che con questa tecnica si potevano prevedere risultati più costanti che con le altre; concordavano anche sul fatto che la pubblicizzazione da parte della stampa di critiche negative ha impedito a molti pazienti, che ne avrebbero bisogno, di ricorrervi.
Dall’Inghilterra, dove la psicochirurgia è stata operante sino a quasi tutti gli anni ’80, si ebbero pareri del tutto favorevoli; ad identiche conclusioni, cioè all’utilità della psicochirurgia in pazienti psichiatrici correttamente selezionati, giunsero con studi compiuti negli Stati Uniti i membri della Task Force sulla psicochirurgia dell’American Psychiatric Association e quelli della Commissione Nazionale per la Protezione dei Diritti Umani di Ricerche Biomediche e Comportamentali.
Ripetuti incontri internazionali sulla psicochirurgia tenutisi negli scorsi decenni dimostrarono che in questo settore si compirono studi accurati in molte parti del mondo.
Una ricerca sistematica iniziò quando Moniz concepì l’idea della lobotomia frontale nei pazienti psichiatrici.
Storicamente la scoperta della psicochirurgia risale allo psichiatra svizzero Burckhardt che, il 29 dicembre 1888, operò per la prima volta al cervello un paziente psicotico.
La sua teoria era che una stimolazione sensoriale, di qualità ed intensità anomale, diretta all’area motoria causasse l’impulsività del paziente; di conseguenza tagliò le connessioni tra l’area motoria e quella sensitiva del lobo parietale.
Dopo la prima operazione fatta sul lato destro si era ottenuto un evidente miglioramento, ma solo dopo 4 interventi, effettuati anche sull’emisfero sinistro, il paziente divenne tranquillo e collaborante.
È interessante rilevare che nei pazienti lobotomizzati alcuni atteggiamenti, come occasionali esplosioni d’ira ed allucinazioni, persistono, ma senza partecipazione emotiva da parte del paziente.
In un secondo caso Burckhardt interruppe le fibre tra l’area centrale ed il lobo frontale.
Questo paziente, che dopo l’intervento perse completamente la sua aggressività, rappresenta il primo caso di “lobotomia frontale” per disturbi mentali (1889).
In tre casi successivi Burckhardt tentò di sopprimere le allucinazioni auditive con una incisione temporo-corticale. Incoraggiato dai risultati ottenuti su pazienti con prognosi ovviamente infausta, raccomandò di trattare con questa tecnica quei pazienti nei quali non erano possibili altre terapie; questi tentativi furono però abbandonati e solo dopo molti decenni furono ripresi a Lisbona da Antonio Egas Moniz, che non era a conoscenza del lavoro di Burckhardt.
Moniz basò il suo lavoro sulle osservazioni fisiologiche e cliniche della funzione del lobo frontale. Il suo primo esperimento consistette nell’iniettare alcool nei lobi frontali; il primo intervento fu condotto da Moniz e Lima nel 1935.
Nella sua monografia pubblicata nel 1936, Moniz riportò 20 casi sviluppanda la teoria secondo la quale l’intervento mirava a interrompere le sinapsi cellulari anomale, responsabili dei processi mentali patologici.
La sola nazione europea che ha accolto e proseguito tali lavori con entusiasmo è stata l’Italia (Rizzatti) sino agli anni ’70.
Il merito di aver evitato al lavoro di Moniz la stessa fine toccata ai precedenti esperimenti di Burckhardt spetta a W. Freeman che, assieme a J. Watts, compi il primo intervento psicochirurgico negli Stati Uniti, il 14 settembre del 1936. I loro tentativi incontrarono una forte opposizione e pochi seguaci fino a che non giunsero dall’Inghilterra risultati cosi favorevoli da portare ad una maggiore accettazione del metodo.
LOBI FRONTALI E SISTEMA LIMBICO
I lobi frontali ed il sistema limbico giocano un ruolo fondamentale in una discussione sulla psicochirurgia. La loro stretta connessione non era ancora nota prima dell’introduzione in psichiatria delle tecniche neurochirurgiche.
Prima che si comprendesse che le connessioni tra il lobo frontale ed il sistema limbico sono in gioco nell’effetto terapeutico della lobotomia frontale, si erano accumulate moltissime ipotesi; solo in seguito l’interesse si è polarizzato in modo sempre più costante sui circuiti limbici, ora interessati in quasi tutti gli interventi stereotassici.
A questo punto è necessario prendere in considerazione alcuni aspetti anatomici e fisiopatologici di queste due aree cerebrali.
L’anatomia dei lobi frontali e le loro connessioni verranno esaminate solo per quegli aspetti che concernono la psicochirurgia. Le implicazioni chirurgiche anatomiche sono state ampiamente discusse nei vari scritti di Freeman.
Le fibre di connessione dei lobi frontali sono state studiate soprattutto da A. Meyer e collaboratori, che ne hanno fatto oggetto di relazione al Congresso Internazionale di Psichiatria, tenutosi a Parigi nel 1950, sullo studio istologico di 122 cervelli di pazienti con lobotomia prefrontale.
Il lobo frontale è collegato posteriormente ed inferiormente con le scissure rolandica e silviana; l’area « prefrontale » è la parte del lobo frontale posta anteriormente all’aria motoria. Il termine lobotomia prefrontale è stato proposto da Moniz, successivamente criticato e sostituito da Menge con quello di “lobotomia frontopolare”.
L’anatomia analitica distingue un solco frontale superiore, uno mediale ed uno inferiore; quest’ultimo è diviso in una parte opercolare, una triangolare ed infine una orbitarla.
Sulla superficie mediale dell’encefalo il solco del cingalo giace tra il solco frontale ed il corpo calloso; alla base dell’encefalo c’è il giro retto.
Il lobo frontale alla base si estende fino al trigono olfattorio ed al confine anteriore dell’insula.
Le fibre afferenti alla regione prefrontale originano per la gran parte dal nucleo dorso-mediale del talamo.
Gli studi di molti autori sulla degenerazione retrograda del nucleo dorso-mediale, con la sua porzione magnocellulare e parvocellulare, hanno contribuito alla nostra conoscenza delle proiezioni talamofrontali. McLardy ha presentato un diagramma delle proiezioni talamiche al lobo frontale, derivante dall’osservazione di 54 encefali sottoposti a diverse lobotomie; questo studio ha confermato i risultati di Walker, e cioè che la porzione mediale del nucleo dorso-mèdiale del talamo si proietta nella regione orbitarla, mentre la porzione laterale si proietta nella convessità del lobo frontale.
Hassler ha dimostrato che il nucleo è formato da unità cellulari che si proiettano verso parti differenti della corteccia frontale.
Questo autore ha anche dimostrato che le connessioni tra lobo frontale e talamo corrono da entrambe le parti. Il lavoro di Hassler e Jung ed altri indica che i rapporti tra corteccia cerebrale e talamo sono molto stretti.
Le connessioni afferenti del lobo frontale sono molto più piccole. Non si è riscontrata degenerazione retrograda come conseguenza dell’isolamento della regione prefrontale, con l’unica eccezione dell’area anteriore del cingolo.
Sono controversi i pareri sulle connessioni efferenti del lobo frontale, che sono state studiate negli animali da Mettler e nei cervelli di pazienti lobotomizzati da Meyer et al. I sistemi associativi intracorticali lunghi e brevi non sono stati ancora del tutto interpretati in quanto la ricerca psicochirurgica ha contribuito scarsamente alla conoscenza di questo problema.
Le correlazioni anatomo-cliniche sono alla base di qualsiasi discussione sulla psicochirurgia. Freeman e Watts, nella prima edizione della loro monografia, hanno illustrato i primi tentativi di localizzare le funzioni del lobo frontale, basati sulle osservazioni clinico-patologiche (Kleist e molti altri).
Le osservazioni sulle lesioni cerebrali e sui tumori raramente si limitavano alla regione prefrontale; la loro possibilità di localizzare le funzioni era quindi necessariamente limitata. Certamente i dati derivati dalla psicochirurgia hanno contribuito alla comprensione della fisiologia del lobo frontale più di tutti i precedenti lavori.
Le lesioni bilaterali del lobo frontale determinano modificazioni più evidenti di quelle unilaterali; occorre tuttavia sottolineare che anche la lobectomia frontale unilaterale determina modificazioni psichiche, come hanno dimostrato Feuchtwanger, Goldstein, Kleist ed altri.
Uno studio accurato sulle modificazioni della personalità riscontrabili dopo una lobectomia frontale unilaterale è stato presentato da Rylander. Attualmente la teoria quantitativa deve essere corretta, perché si pensa che la migliore risposta terapeutica conseguente a tagli più estesi sia probabilmente dovuta ad una interruzione più vasta delle vie frontolimbiche all’interno del lobo frontale.
Jacobsen ha effettuato esperimenti su animali, soprattutto scimmie, ed ha dimostrato che anche le lesioni bilaterali dei lobi frontali non hanno influenza sull’intelligenza; i suoi animali hanno presentato tuttavia modificazioni dell’emotività molto marcate.
Le sue scimmie, contrariamente agli esperimenti negli animali non trattati, erano “del tutto insensibili all’effetto frustrante degli errori”; non mostravano dispiacere quando sbagliavano ne piacere quando effettuavano correttamente i compiti richiesti.
L’analogia tra queste osservazioni e l’esperienza della psicochirurgia è ovvia. I recenti esperimenti su animali sono stati riproposti dai problemi sollevati dalla psicochirurgia. Freudenberg et al. hanno condotto degli studi sull’azione della leucotomia parziale sulle scimmie macacus Rhesus.
Tuttavia, i maggiori contributi alla fisiologia dei lobi frontali sono stati forniti dai lavori sui pazienti lobotomizzati e non dagli esperimenti negli animali. Le osservazioni effettuate in tali pazienti verranno presentate nei successivi capitoli.
Nel 1937 Papez suggerì resistenza di un “meccanismo cerebrale delle emozioni” collocato nelle strutture comprese tra ipotalamo, nucleo talamico anteriore, giro cingolato ed ippocampo.
Questi erano i circuiti mediali limbici. Successivainente Yakovlav ha ampliato il concetto di Papez fino ad includere le aree orbitofrontali, insulari e anterotemporali, oltre alle loro connessioni con l’amigdala’ed il nucleo dorso mediale del talamo.
Entrambe le metà laterobasali e mediali del circuito limbico hanno una grande diffusione verso l’ipotalamo e la parte mediale dell’encefalo.
Livingston ha studiato il sistema limbico relativamente alla psicochirurgia ed ha affermato che questi circuiti sono i responsabili dell’omeostasi emozionale e comportamentale.
Questo autore ha polarizzato l’attenzione”su quest’area allo scopo di individuare interventi terapeutici sempre più selettivi per “ridurre il peso schiacciante di malattie psichiatriche altrimenti intrattabili”.
MODIFICAZIONI PSICOLOGICHE
Le gravi e temute modificazioni della personalità, che erano un frequente effetto collaterale delle più ampie lobotomie standard, non erano più evidenti nei pazienti selezionati per le più recenti tecniche operatorie.
Il timore di modificazioni della personalità rappresenta tuttora il motivo principale della riluttanza di molti psichiatri verso la psicochirurgia; tutti coloro che lavorano in questo campo, e che hanno sotto gli occhi gli apprezzabili risultati cimici, rifiutano questi preconcettì.
L’importanza pratica e l’interesse teorico delle modificazioni della personalità conseguenti a lobotomia frontale giustificano l’ampia discussione che ne verrà fatta in questo libro. Era sorprendente che anche nei pazienti lobotomizzati con evidenti modificazioni della personalità i tests psicologici non rivelassero alcun deficit delle capacità.
Divenne presto evidente che i tests psicologici disponibili non erano in grado di valutare le modificazioni avvenute in tali pazienti e che era necessaria un’attenta osservazione clinica del comportamento.
Tratteremo solo brevemente i risultati dei tests psicologici e daremo più spazio alle conclusioni derivate dai colloqui col paziente e con i suoi familiari.
Si è ora compreso che molte modificazioni, considerate in passato come risultato dell’intervento, sono in realtà dovute al processo schizofrenico. Con le nuove tecniche operatorie, che comportano interventi più limitati, tali modificazioni sono del tutto assenti nei pazienti non deteriorati, considerati i migliori soggetti per la psicochirurgia.
I tests psicologici nei pazienti sottoposti a psicochirurgia sono stati impiegati all’inizio da Hunt e, poi, anche da Freeman e Watts. I tests psicometrici, effettuati per valutare le capacità intellettive dei pazienti, non hanno messo in evidenza una diminuzione dell’intelligenza.
La loro esecuzione è lenta e poco accurata nelle prime settimane dopo l’intervento, ma nei mesi successivi tende a normalizzarsi. Spesso si è verificato un miglioramento delle risposte, dovuto con tutta probabilità alla scomparsa dei sintomi psicotici o nevrotici. I risultati delle ricerche di Hunt, ottenuti con una batteria di 15 tests, sono stati confermati da numerosi altri psicologi.
È comprensibile, quindi, che i tests come il Rorschach, piuttosto che rivelare modificazioni quantitative, abbiano messo in luce differenze qualitative, consistenti in una diminuzione delle tendenze nevrotiche. in una mmor preoccupazione verso i risultati ed in una ridotta autocritica.
Secondo Grassi, il Rorschach grafico (che varia da quello verbale in quanto al paziente è richiesto di disegnare le proprie impressioni) ha messo in evidenza un indebolimento dell’astrazione ed una incapacità di passare dal concreto all’astratto.
Grassi ha però dimostrato che questo deficit scompare entro il primo anno.
Il tentativo più importante per capire le modificazioni avvenute in questi pazienti è stato fatto da Partridge; la sua ricerca si è basata su 300 casi, visti singolarmente prima e dopo l’intervento.
Egli ha descritto la personalità dei pazienti sottoposti alle vecchie lobotomie nel seguente modo:
“Dopo l’intervento c’è una tendenza alla riduzione dell’attività. Dal lato affettivo si ha una parallela riduzione dell’intensità delle esperienze emotive.
Complessivamente, il paziente diventa meno sensibile. Questo effetto è evidente nella diminuzione della capacità di valutazione, in una riduzione del senso di responsabilità e di comprensione. Il paziente è, in modo sottile, più primitivo, meno critico verso se stesso e verso gli altri.
La diminuzione dell’autocritica produce un aumento della fiducia ed una perdita della consapevolezza dei propri limiti; ne deriva un aumento della estroversione. Quest’ultima spinge verso il piacere e la soddisfazione, evitando le difficoltà e gli sforzi. Il paziente si svuota dal lato intellettivo, con interessi più ristretti e soddisfazioni più semplici”.
Tutte le modificazioni post-operatorie della personalità sono evidenti più nell’ambiente familiare che alla presenza di estranei, davanti ai quali il paziente è in grado di controllarsi.
Negli schizofrenici senza deterioramento queste modifìcazloni sono difficilmente osservabili, anche dopo gli interventi più complessi.
Bibliografia:
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