Stress, questo termine è entrato ormai nell’uso scientifico e comune, indica genericamente uno stato di malessere, piu` o meno grave, dovuto ad una stimolazione traumatica, spesso di non grave entità ma prolungata e stabile.
L’origine del termine “stress” è singolare: viene mutuato in medicina dall’ingegneria dove viene utilizzato per indicare il massimo di tensione sopportabile da una struttura rigida in condizioni di sollecitazione.
In psichiatria il termine stress viene utilizzato come equivalente di trauma psichico continuativo e serve a valutare il grado di risposta e di adattamento al trauma.
Il concetto generale di Stress
Il termine “stress” fu utilizzato per la prima volta nel 1936 da Hans Selye per indicare una reazione aspecifica dell’organismo nei confronti di uno o più agenti stressanti, che possono essere di varia natura (fisica, chimica, biologica, emotiva, ecc.), e che vengono generalmente indicati come induttori fisici e psichici di stress.
A tale considerazione Selye giunse notando che nel corso di alcuni esperimenti di laboratorio, ratti a cui venivano inoculati estratti ovarici mostravano a livello anatomo-patologico le stesse lesioni presenti nei ratti di controllo a cui veniva iniettata una semplice soluzione fisiologica.
Tali lesioni erano caratterizzate da atrofia del timo e del tessuto linfatico in genere, ipertrofia della corteccia surrenale e lesioni sulle pareti gastriche.
Dall’osservazione di tutto questo fu possibile ipotizzare che il danno somatico non era determinato dalla sostanza iniettata, ma dalla reazione di allarme generata dalla situazione specifica.
Selye quindi giunse alla definizione di “Sindrome generale di adattamento” (modernamente definita Disturbo dell’Adattamento) per indicare la reazione aspecifica che viene indotta in un soggetto in presenza di un fattore/evento stressante.
I Tre Momenti dello Stress
Questa sindrome correlata allo stress, che modernamente si può strutturare nel Disturbo dell’Adattamento, prevede inizialmente tre momenti fondamentali: una reazione di allarme, caratterizzata da una fase di shock in cui prevale una attivazione del sistema parasimpatico che determina una brusca caduta della pressione arteriosa, ipotermia, riduzione della diuresi, ecc., a cui fa seguito una fase di contro-shock, in cui l’attivazione del simpatico provoca invece un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, una vasocostrizione periferica, una riduzione del flusso ematico a livello splancnico con un aumento invece in altri distretti (cuore, cervello, ecc.), una maggior utilizzazione del glucosio, ecc.
Questo status complessivo corrisponde alla messa in atto di meccanismi di attacco.
Alla reazione di allarme segue la cosiddetta fase di resistenza nella quale l’organismo continua la propria difesa cercando di trovare una forma di adattamento e di compensazione alla situazione di stress.
Se però quest’ultima si protrae troppo a lungo si arriva alla terza ed ultima fase, che è quella di esaurimento.
In questo caso si determina uno stato di inibizione diffusa che coinvolge i vari sistemi (neurovegetativo, endocrino, ecc.) che si erano attivati per far fronte alla situazione di stress, e ciò comporta un danneggiamento diretto ed irreversibile, di grado variabile, di alcune delle strutture coinvolte.
Anche nell’uomo si è potuta riscontrare la presenza di identiche lesioni degenerative in pazienti deceduti per cause diverse che comunque avevano esercitato una pressione costante sull’individuo (come accade nel caso della “morte da superlavoro“, gravi traumi psichici, ecc…).
Aragona sostiene che le “…alterazioni organiche da stress sono qualitativamente uniformi indipendentemente dalla natura dello stress, essendo possibili solo differenze quantitative in relazione alla suscettibilità individuale, alla qualità, all’intensità e alla durata dello stress” (Aragona F., 1993).
Nell’uomo, quindi, la risposta all’agente stressante è mediata anche da altri fattori che sono collegati fondamentalmente ai processi cognitivi e all’emotività, quindi complessivamente alla personalità del soggetto.
Secondo Paolo Pancheri, uno stress induce una risposta che in primo luogo viene elaborata, “controllata”, riconosciuta a livello cognitivo, e successivamente valutata da un punto di vista emotivo, cioè ogni singolo soggetto risponderà attivando sia una risposta di tipo puramente biologico sia una più strettamente comportamentale.
La risposta biologica consiste nella attivazione di una serie di assi che coinvolgono il sistema nervoso sia centrale che periferico, l’asse ipotalamosurrenale; dalla liberazione di endorfine che sono responsabili, tra le altre cose, di una riduzione della sensibilità al dolore, dall’inibizione di varie funzioni quali quelle relative alla riproduzione, alla crescita, alla digestione, ecc.
La risposta comportamentale è invece legata a fattori che sono più strettamente in relazione con la personalità del soggetto, al modo di reagire nei confronti di alcune situazioni, alla memoria delle precedenti esperienze vissute, ad una serie di modelli comportamentali appresi nell’ambito della società in cui l’individuo vive, alla possibilità concreta di poter modificare lo stato delle cose, etc.
La Reazione di Stress
La reazione di stress è quindi un tentativo di neutralizzare uno stimolo quando questo determina una alterazione della normale attività dell’organismo.
Secondo Weiner, «…la perturbazione di un sistema non altera l’homeostatic steady state, ma conduce ad un bivio che o forza il sistema verso una instabilita` oscillatoria, o produce un ritorno ad una modalita` precedente di funzionamento» (Weiner J. M., 1991).
Vista infatti la complessita` del funzionamento dell’organismo e di come questo possa essere modificato anche in assenza di uno stimolo evi- dente, riesce difficile immaginarsi la presenza di un equilibrio omeostatico.
A questo proposito e` utile introdurre il con- cetto di ritmo biologico. Tutte le funzioni di un dato organismo sono caratterizzate dall’alternarsi di ritmi endogeni quali il ritmo sonno-veglia, la termoregolazione, la secrezione di cortisolo e di ACTH, del GH, ecc. Come ho gia` affermato, «…e` importante tener presente che tutti questi ritmi sono sottoposti all’influenza di sincronizzatori ambientali, ma anche che sono legati tra di loro in relazione di fase per produrre un adattamento ambientale, sul piano biologico e comportamen- tale, ottimale» (Lalli N., 1994).
Si e` anche osservato che se si creano delle situazioni sperimentali in cui viene meno il ruolo del sincronizzatore ambientale, vi sono alcuni di questi ritmi (secrezione di ACTH, cortisolo, rego- lazione della temperatura corporea) che riman- gono costanti, mentre altri (alternanza del ritmo sonno-veglia, secrezione di GH, prolattina, ecc.) subiscono delle modificazioni. In una situazione di stress questi equilibri dinamici tendono ad alte- rarsi.
La presenza e l’interazione dei ritmi biologici rende ancora piu` complessa e delicata la valuta- zione della reazione da stress, ma implica sicura- mente un fattore importante: la durata della si- tuazione stressante.
Le reazioni innescate da un evento stressante devono durare un periodo di tempo limitato, al- trimenti e` possibile che si provochino dei danni che possono variare da forme piu` leggere, reversi-
bili, fino a forme irreversibili sia sul piano fisico che su quello psichico. Qualora infatti si abbia uno scompenso nella risposta biologica si possono determinare patologie che coinvolgono diretta- mente l’organismo sul piano somatico (iperten- sione, ulcera gastrica o duodenale, malattie inte- stinali, respiratorie, ecc..); se invece prevale una risposta di tipo psicologico-comportamentale, si possono manifestare una serie di disturbi psichici che possono andare dalla depressione fino ad un quadro di psicosi conclamata.
Il problema che si pone e` capire che cosa determina delle risposte cos`ı diverse ad uno stes- so evento stressante.
Numerose sono le ipotesi a questo riguardo.
Da alcune ricerche effettuate su animali in laboratorio, si e` potuto evidenziare che alcune situazioni, quali la prevedibilita` e la capacita` di poter porre rimedio o quanto meno fronteggiare una situazione di stress, possono avere delle con- seguenze meno negative.
A questo proposito mi sembra interessante riferire gli esperimenti condotti in laboratorio da J.M. Weiss.
Ponendo in gabbie separate due topi collegati a livello della coda allo stesso stimolatore elettrico, ed in una terza gabbia un topo di controllo che per tutta la durata dell’esperimento era libero di esplorare il suo ambiente senza ricevere alcuna stimolazione elettrica, si e` visto che le alterazioni gastriche riscontrate nel topo della prima gabbia erano inferiori rispetto a quelle presenti nel secondo topo che riceveva simultaneamente la stessa scossa, poichè mentre il primo animale riceveva un segnale prima di ciascuna stimolazione, il secondo topo invece riceveva un segnale che non aveva alcuna relazione temporale con il verificarsi della stessa scossa.
I topi della terza gabbia presentavano invece lesioni minime o nulle.
Allo stesso modo si e` osservato che se il topo della prima gabbia veniva messo in condizione di evitare o interrompere lo stimolo, presentava lesioni minori del topo presente nella seconda gabbia che riceveva lo stesso segnale di avvertimento, la stessa scossa di uguale durata, ma non poteva far nulla per evitarla. Inoltre si è visto che se un topo che ha imparato ad evitare, con un
determinato movimento appreso, la stimolazione elettrica, subisce improvvisamente una scossa pur ripetendo quegli stessi movimenti, presentera` delle lesioni gastriche maggiori rispetto al topo che non puo` evitare lo stimolo.
Weiss parla a questo proposito dell’importanza di quella che definisce una retroazione utile: «Una retroazione appropriata e` detta utile e consiste di stimoli che non sono associati alla situazione di stress. Si ha una retroazione utile quando una risposta produce stimoli che differiscono dallo stressor. La quantita` di retroazione utile prodotta dipende da quanto diventa diversa la situazione di stimolo e da quanto lontani sono questi nuovi stimoli da qualsiasi associazione con lo stressor» (Weiss J.M., 1991).
Anche osservazioni effettuate su babbuini, nei quali e` stato analizzato in particolare quanto in- fluisce la posizione di ciascun animale all’interno della propria gerarchia sociale ai fini di una risposta ad uno stimolo stressante, hanno indicato, come afferma Sapolsky, che “…il numero di induttori sociali di stress ai quali un individuo e` sottoposto influisce meno sulla fisiologia di quanto faccia lo “stile” emotivo con cui il soggetto li percepisce e li affronta” (Sapolsky R.M., 1991).
È evidente che questo “stile emotivo” è ancora più importante e determinante nell’uomo.
Come ad es. riporta Sapolsky, “…uno studio classico ha dimostrato che i genitori i cui figli erano colpiti da tumore avevano livelli di cortisolo piu` elevati di quelli dei genitori di figli sani. L’incremento, tuttavia, variava a seconda di come i soggetti affrontavano la situazione. Livelli di cortisolo molto più bassi furono trovati nei genitori che avevano difese psicologiche contro l’angoscia come, per esempio, la fede religiosa, la capacita` di negare la gravità della malattia del figlio o la tendenza ad annullare l’ansia occupandosi di tutti i dettagli della cura del figlio malato” (Sapolsky R.M., 1991).
E` chiaro che la specificita` di una reazione viene ad essere meno spiccata qualora si presenti uno stress improvviso, che richiede una immediata capacita` di reazione, senza troppe possibilità di valutazione. In questi casi la risposta diventa più aspecifica ed il tipo di reazione è più facilmente generalizzabile.
E` ciò che avviene ad esempio in caso di terremoto, incendio, o altre calamita` naturali che non consentono all’uomo di elaborare una risposta adeguata.
Weiner, che riscontra già nelle teorie evoluzionistiche di Darwin le origini del termine stress, definisce lo stress come «…una sfida o una minaccia all’integrità e sopravvivenza dell’organismo», ed individua come elementi di stress «quelle pressioni selettive che derivano dall’ambiente fisico e sociale» (Weiner H. 1991) che vengono cosí divise: 1) disastri naturali: terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche, infezioni, ecc…; 2) disastri provocati dall’uomo: guerre, invenzioni tecnologiche, torture, stupri, ecc.. ; 3) esperienze personali: rottura di relazioni umane importanti, perdite, separazioni, divorzi, povertà , migrazione, ecc…
Non è facile stabilire una tipologia degli indi- vidui che avranno una maggiore probabilita` di sviluppare una patologia psichica o organica a seguito di una serie di eventi stressanti ripetuti o protratti nel tempo.
Per quanto riguarda le patologie somatiche si è ipotizzato che una iperstimolazione del sistema simpatico-ergotrofico sia in grado di determinare una eccitazione spiccata nell’organismo che, prolungata nel tempo, potrebbe essere responsabile di patologie quali ipertensione arteriosa, aritmie cardiache, ecc., che si verificherebbero con maggior probabilità quando appunto la reazione di allarme, ripetuta e protratta nel tempo, non e` seguita da una reale e concreta messa in atto della reazione di stress. Sembrano essere piu` sog- getti a questo tipo di patologie gli individui cosiddetti di tipo A: si tratta di persone in un costante stato di iperattivita` , eccitabilità , aggressività , competitività , ostilità , in cui neanche il riposo determina un recupero di energie da parte del- l’organismo. (Alexander a questo proposito parlava della presenza, in questi soggetti, di comportamenti di natura ostile-aggressiva, che non potendo per motivi esterni essere messi in atto potevano determinare delle malattie a livello cardiocircolatorio).
Una stimolazione protratta del sistema parasimpatico sarebbe invece responsabile di una reazione di inibizione, in cui prevalgono nell’organismo meccanismi di mantenimento e anabolici che su un piano somatico si manifesterebbero prevalentemente con patologie a carico dell’apparato gastroenterico.
In questo caso la reazione di resistenza nei confronti dell’ambiente esterno viene completa- mente evitata, con un ripiegamento dell’individuo sul proprio corpo.
Questa condizione psicofisica è spiegata da Alexander come legata ad un problema di oralità, nel senso che l’individuo che mette in atto questi meccanismi di difesa si viene a trovare in particolari condizioni psicologiche (fondamentalmente di dipendenza), per cui come un bambino richiede di “essere nutrito”, oltre che amato. Questo comporterebbe una continua attivazione dell’apparato digerente con conseguenti lesioni a carico degli organi stessi.
Quindi se i meccanismi biologici ci possono fornire indicazioni sul come lo stress induce lesioni, piu` o meno transitorie, e` evidente che il perché è da cercarsi nei fattori psicologici.
Abbiamo gia` accennato al ruolo importante che viene svolto dall’atteggiamento psicologico con il quale l’individuo affronta uno stress. L’avere una rete di relazioni sociali che sostiene l’individuo nei momenti difficili, la capacita` di prevedere, di affrontare o di evitare un evento stressante, possono essere dei meccanismi che giocano indubbiamente a favore di una risposta adeguata.
Schematicamente Levine e Ursin hanno delineato tre diverse modalità di reazione allo stress che si basano fondamentalmente sulle aspettative che il singolo soggetto nutre nei confronti della situazione di stress: “coping”, “helplessness”, “hopelessness” (Levine S., Ursin H., 1991).
Si può intendere come “coping” la capacità di fronteggiare una determinata situazione di minaccia o di sfida, basata sulla aspettativa di un risultato favorevole.
Tutto ciò è strettamente legato alla capacità “…di capire se si e` in grado di controllare una determinata situazione. Questo dipende dalla capacita` di rispondere attivamente in presenza di stimoli avversi e di registrare le conseguenze di tali atti. Se le risposte producono un risultato positivo, sia attraverso dei meccanismi di fuga o di evitamento dell’evento dannoso o attraverso la capacita` di ottenere un rinforzo positivo, il cervello immagazzinerà allora queste relazioni come aspettative di risultati positivi. Questo tipo di apprendimento richiede non solo che si verifichino tali eventi positivi, ma il cervello deve anche essere in grado di registrare questi risultati. Questo processo è spesso chiamato di feedback. Un feedback rapido e chiaro e` necessario per controllare, ed inoltre per saper fronteggiare ciò che si potrà verificare”.
L’“helplessness” corrisponde ad un senso di impotenza, di incapacità e si verifica in “…quelle situazioni psicologiche in cui l’individuo non può determinare alcuna relazione tra le risposte disponibili ed il risultato probabile”.
In questo caso il soggetto ritiene che esiste una probabilità molto bassa che le risposte disponibili porteranno ad una qualsiasi conseguenza positiva.
L’“hopelessness”, che significa mancanza di speranza, indica che “…l’individuo ha acquisito con l’esperienza l’idea che le risposte possibili porteranno ad eventi contrari o negativi, quali una punizione”.
Accanto a queste modalita` di reazione, Levine e Ursin aggiungono anche l’atteggiamento di “distorsione” e di “diniego”: “…Nelle sue forme piu` primitive, questo meccanismo di difesa puo` bloccare i segnali di minaccia che inducono la risposta di stress. Il prezzo di tutto cio` puo` essere il fallimento nel sapersi comportare adeguata- mente in situazioni di pericolo“.
Cio` che sembra determinare il prevalere di un atteggiamento psicologico rispetto ad un altro è il tipo di esperienze vissute in precedenza, in particolare nei primi anni di vita.
Esperienze di perdita, di separazione o traumatiche in genere, possono predisporre maggiormente l’individuo ad un atteggiamento di timore, di ansia, d’incapacità di gestire una situazione.
La psicologia e la psicodinamica cercano di individuare la complessità di tutti i fattori che concorrono a determinare la risposta psicologica nell’individuo al fine di poter considerare la malattia, anzi il malato, nella sua globalita`.
Quello che possiamo affermare è che pur continuando ad utilizzare il termine di stress, in effetti la complessità di questo concetto nell’uomo è ben lungi dalla linearità esposta da Selye.
E`evidente che esistono diverse risposte, molto soggettive, ad uno stesso stimolo stressante.
Non esiste lo stress in senso assoluto, ma invece esistono diverse risposte dell’uomo alle varie sollecitazioni alle quali egli è costantemente esposto.
Pertanto il concetto di stress è un ponte, a volte una scorciatoia non sempre percorribile, tra il concetto di trauma e di adattamento.
Come potrete vedere in altri miei articoli di questo blog, lo stesso trauma può comportare reazioni molto diverse, il che implica l’importanza, per comprendere l’effetto del trauma, della diversa struttura di personalità e anche della situazione contestuale.
Quindi l’effetto del trauma non è una variabile indipendente dalla personalità: alcuni possono soccombere rapidamente, altri adattarsi, altri ancora resistere e utilizzare il trauma per una ulteriore evoluzione psichica.
Diceva Friedrich Nietzsche: “…. ciò che non mi uccide, mi rinforza”.
A seguire il Joker affermò anche, molto argutamente, che “…. ciò che non mi uccide mi rende più strano”.
Per finire, credo che sul concetto di trauma possiamo fare tre affermazioni che non sono smentibili:
a) l’effetto del trauma è tanto più deleterio quanto più avviene in età molto precoce. Per questo i traumi nei primi anni di vita possono indurre effetti molto catastrofici: è come se il trauma comportasse una sorta di imprinting, quindi difficilmente trasformabile.
b) non e` tanto importante l’entita` del trauma, quanto piuttosto la persistenza. Questo vale sia in età infantile che in quella adulta. Nel capitolo successivo, Psicopatologia delle situazioni estreme, vedremo la grande capacità di reazione e adattamento di un P. Levi e di un B. Bettelheim, anche se il suicidio del primo e i comportamenti sadici dello psichiatra infantile inducono a pensare che traumi ripetuti e continuativi anche in eta` adulta possono lasciare comunque tracce indelebili, che magari compaiono solo a distanza di tempo.
c) che non sempre il trauma si identifica con situazioni sadiche evidenti. Molto spesso il trauma, soprattutto in età infantile, può essere l’assenza psichica o fisica o l’indifferenza, comportamenti che non sono sempre facilmente percepibili sul piano comportamentale.
Bibliografia:
- Biondi M., Pancheri P. (1993), “Stress”, in Trattato Italiano di Psichiatria, (a cura di Cassano G.B., Pan- cheri P.), Masson, Milano.
- Kalin H.N. (1991), “Defensive behavior in nonhuman primates” in Stress, Neurobiology and Neuroendo- crinology, (a cura di M.R. Brown, G.F.Kool, C.Ri- vien), M. Dekker, New York.
- Koob F.G. (1991), “Behavioral responses to stress”, in Stress, Neurobiology and Neuroenocrinology, (a cura di M.R. Brown, G.F. Kool, C. Rivien), M. Dekker, New York.
- Levine S., Ursin H. (1991), “What is stress?” in Stress, Neurobiology and Neuroendocrinology, (a cura di M.R. Brown, G.F. Kool, C. Rivien), M. Dekker, New York.
- Weiner H. (1991), “Behavioral biology of stress and psychosomatic medicine” in Stress, Neurobiology and Neuroendocrinology, (a cura di M.R. Brown, G.F. Kool, C. Rivien) cap. 2, M. Dekker, New York.
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